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Persecuzione in
Italia
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di Roberto
Bracco
Capitolo 7:
Un culto all'aperto
1.
L'arresto durante un culto
1a.
Una giornata
in prigione celebrando culti
1.
L'arresto durante un culto
Eravamo raccolti in un tardo
pomeriggio di primavera sulle rive dellAniene, il
torbido affluente del Tevere che scorre nellestrema
periferia della città.
Il luogo scelto per le riunioni di culto era dei più
accoglienti: una vasta conca circondata da folti cespugli,
che, mentre ci isolavano dalla zona, daltronde
deserta che ci correva attorno, ci mantenevano anche in
uno stato di raccoglimento e di poesia.
Non era la prima riunione che tenevamo in quel luogo e
non ci eravamo mai pentiti della scelta fatta, benché
per accedere alla conca erbosa dovevamo percorrere un
lungo tratto di strada e superare delle ardue zone
accidentate.
Quella sera, fra il sommesso salmeggiare dei cantici e
quello meno sommesso delle preghiere, giungemmo fino a
quel punto della riunione che tutto tace per dar posto
alla predicazione della Parola.
Un
giovane fratello lesse pacatamente il salmo 129 e poi
lentamente, ma con calore, cominciò a porgere il suo
sermone.
Era ancora alle prime parole,
quando i ciuffi verdi dei cespugli si piegarono
violentemente e comparvero tuttintorno uomini in
borghese.
Comparire e saltare come fiere tra noi fu quasi una sola
azione. «Non
vi muovete, non fuggite, state fermi», presero
a gridare concitatamente, «Siamo agenti di polizia; vi
dichiariamo in arresto».
Nessuno di noi pensava a fuggire, anzi, rimanemmo tutti
fermi e tranquilli.
Rassicurati dalla nostra attitudine gli agenti, senza
più gridare, ci circondarono. «Ora seguiteci», ci
dissero.
Il gruppo era molto folto e quindi cincolonnarono
per due e ci avviarono, sotto scorta vigilante, verso
labitato.
Gli agenti non erano soddisfatti della spedizione; per
giungere al luogo ove eravamo radunati avevano dovuto,
oltre che affaticarsi, sacrificare le loro scarpe e i
loro abiti al fango, agli sterpi e perciò lungo il
cammino sfogavano tutto il loro malumore con frasi
mordaci indirizzate alle nostre persone.
Finalmente giungemmo ad un'ampia radura dove stazionava
il resto del drappello della polizia.
Cera ad attendere unauto da trasporto
sufficiente per una trentina di persone. Da qui cominciò
il trasporto al più vicino commissariato di polizia;
furono prima fatte salire parte delle sorelle ed avviate
velocemente allo stabile ove aveva sede il posto di
polizia che distava oltre un chilometro dal luogo .
Queste,
tutt'altro che spaventate, cantavano lungo il
percorso: «Salvati
siamo, non più timore, per questa strada si giunge
al cielo...»
«No,
care signore, interrompevano gli agenti di scorta, per
questa strada si giunge in prigione».
Gli
agenti ignoravano una verità preziosa, e cioè che
la strada di Dio passa per la prigione, ma porta in
cielo.
Tre, quattro viaggi furono
necessari per trasferire lintero gruppo dalla
radura al commissariato.
Lì fummo ammassati in un ampio salone, usato come
refettorio per gli agenti, e lasciati in attesa di ordini.
Mentre
cintrattenevamo lietamente e serenamente in
conversazione cristiana entrò
un individuo dal viso rosso e dall'occhio penetrante;
prese a fissarci attentamente uno dopo l'altro; ogni
tanto si fermava per un particolare esame, davanti ad un
fratello o ad una sorella; allora si piegava e allungava
il collo in avanti per concentrare la sua attenzione dal
basso in alto. Compiuto l'esame di tutti, ricominciò dal
primo e così per diverse volte. Non abbiamo mai saputo
la ragione di quella strana osservazione.
Io intanto cominciavo a sentire
una fame acuta, in quell'epoca soffrivo strani disturbi
di stomaco che venivano provocati appunto dalla fame e
cominciai perciò a pensare a quel che avrei sofferto di
lì a poco.
Da molte ore non mangiavo e non cera la
probabilità che avrei mangiato molto presto.
Ma l'Iddio, che nutrì il profeta per i corvi, mandò
anche a me un aiuto provvidenziale e insperato. Il corvo
questa volta ebbe le spoglie di un agente che, rientrando
tardi da un permesso giornaliero, venne nel refettorio a
consumare la sua cena.
Incuriosito della presenza di tante persone prese a
chiederci spiegazioni e a darci, di conseguenza, l'opportunità
di rendergli testimonianza della verità. Io mi trovai
fra i primi e fra i più attivi a rispondere alle sue
parole. Il giovane fu vivamente toccato nell'animo e in
un trasporto di simpatia mi offrì spontaneamente un pane
con della carne in mezzo; era quanto bastava per placare
i morsi della fame e trasferire il mio disturbo doloroso.
Trascorsero diverse ore; incominciarono le solite
procedure burocratiche: consegna dei documenti di
identità, interrogatori, ecc.
Finalmente giunse la decisione del commissario: le
donne siano rilasciate, gli uomini invece siano rinchiusi
nelle camere di sicurezza.
1a.
Una giornata
in prigione celebrando culti
Per nostra buona ventura le
camere di sicurezza in uso in quel commissariato erano
abbastanza ampie; misuravano forse quattro metri per
ognuna delle pareti e quindi, quando fummo divisi in
gruppi e posti 14 per 14 nelle due celle, non ci trovammo
troppo ristretti.
Entrammo in quella cella verso le due di notte e cioè
dopo molte ore dall'arresto, eravamo stanchi e quasi
tutti non avevamo mangiato dalle prime ore della mattina,
ma nessuno avvertiva stanchezza e fame e tutti ci
trovammo d'accordo d'incominciare subito una riunione di
culto: non temevamo arresti e non eravamo agitati da
nessuna trepidazione; la polizia ci aveva offerto un
locale ed una opportunità per tenere una riunione in
completa libertà.
Ricordo chiaramente il testo del sermone: «Sii fedele fino
alla morte ed Io ti darò la corona della vita» (Apocalisse
2.10).
Tutti
fummo incoraggiati e consolati dalle preziose parole
del Signore.
Terminata la riunione, poiché
non si poteva pensare alla cena (in camera di sicurezza
danno da mangiare soltanto una volta al giorno pochi
grammi di pane con carne di cavallo insaccata), pensammo
di metterci a dormire. A questo punto sorse il primo
problema.
In nessuna camera di sicurezza esiste un letto e in
quella, come in tutte le altre, c'era soltanto il
classico tavolaccio e cioè un tavolo di
legno della grandezza di metri 2x2, conficcato nel muro e
sorretto all'estremità opposta da un cavalletto posto su
un piano più basso, per dare una posizione inclinata
alla tavola stessa. A circa 25 cm. più in alto era
conficcata nel muro una seconda tavola larga forse 30 cm.
che correva per tutta la lunghezza del
tavolaccio; questa seconda tavola
rappresentava il guanciale degli infelici malcapitati.
Il tavolaccio non era il letto più desiderabile, ma
comunque rappresentava ugualmente un mezzo per tentare il
conseguimento di un poco di riposo, ma come sistemare 14
persone su due metri di legno?
Decidemmo di attuare una specie di turno: alcuni si
sarebbero accomodati sul tavolo, altri in terra; dopo
qualche tempo avremmo sostituito i rispettivi giacigli...
Così facemmo e così giungemmo alle prime luci della
mattina fortunatamente non lontane dall'ora in cui
iniziammo l'incomodo nostro riposo.
Con la luce avremmo voluto
incominciare la nostra giornata: lavarci, metterci in
ordine. Chiamammo gli agenti, ma questi ci risposero che
queste cose non sono d'uso nelle camere di sicurezza,
perché coloro che sono detenuti in queste non devono
uscire per nessuna ragione finchè non si decide la loro
sorte e cioè o libertà o carcere giudiziario.
Per questo motivo, aggiunsero, esiste quel vaso di legno,
entro la cella stessa; e, così dicendo, ci indicarono un
lurido arnese che giaceva in un angolo della stanza, che
ora alla luce del giorno ci appariva nel suo reale,
orrido stato.
Pazienza! Ci rimane una sola cosa da fare,
dicemmo gli uni agli altri, e cominciammo una nuova
riunione di culto. Non
ricordo in quale modo eravamo riusciti a rimanere in
possesso di una copia di un piccolo Nuovo Testamento (ogni
altra cosa ci era stata tolta, assieme alle correggie
delle scarpe e dei pantaloni) e quindi, se dovemmo
servirci solo di quegli inni che sapevamo tutti a memoria,
potemmo servirci, nel sermone, della scrittura.
La giornata trascorse in santa letizia; le ore
trascorsero nelle conversazioni cristiane e nelle
preghiere e nel pomeriggio tenemmo una terza riunione di
culto.
Non ci diedero molto da mangiare e non vollero neanche
farci passare quanto le sorelle, sin dalle prime ore
della mattina, portarono al commissariato (In quei giorni
non esisteva un'organizzazione, ma tutto era organizzato
in modo perfetto dallo Spirito di Dio), ma il Padre
celeste ci nutrì abbondantemente delle parole della Sua
bocca.
Durante la giornata venimmo interrotti frequentemente
dalle visite di controllo degli agenti: questi aprivano
la porta, ci contavano, ci dicevano qualche frase di
scherno, e poi tornavano a chiudere la porta davanti a
noi.
Giunse la sera e già ci disponevamo ad incominciare un
nuovo turno sul tavolaccio, quando la porta
si aprì violentemente ed un nome fu pronunziato
imperiosamente.
Il fratello chiamato seguì l'agente; attendemmo diverso
tempo, ma non tornò. È troppo tardi, dicemmo, per un
trasferimento al carcere giudiziario, forse per questa
volta ci lasciano in libertà.
La porta si aprì di nuovo: un secondo nome: «Perchè ci
chiamano?» chiedemmo all'agente «Per essere posti
in libertà», fu la risposta.
Uno dopo l'altro i fratelli cominciarono ad uscire. Venne
anche la volta mia (fui il penultimo) e fui portato
davanti ad un funzionario che mi coprì di minacce e al
quale naturalmente diedi la sola e semplice risposta: «Io devo fare la
volontà di Dio» e poi
fui condotto al corpo di guardia dove mi furono
restituite tutte le cose che mi erano state tolte:
correggie, fazzoletti, portafoglio, denaro, ecc.
Era
notte quando uscii sulla strada, ma trovai lì ad
attendermi, diversi altri fratelli e sorelle che
erano venuti ad attenderci.
Questesperienza
era passata; glorificammo insieme il Signore e
uniti ci disponemmo per attendere quello che
doveva ancora venire.
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